lunedì, novembre 05, 2007

Horror cibi

Recentemente è tornato alla ribalta (vedi qui e qui) un annoso problema, quello dell’adulterazione dei cibi. In passato abbiamo avuto il vino al metanolo, poi il pollo alla diossina, oggi la mozzarella con il latte in polvere, il pane alla calce...
Tutto questo ha dato vita ieri, come oggi, a campagne d’informazione che hanno giustamente messo in allarme i consumatori, i quali hanno preso coscienza dei pericoli che tutti i giorni rischia la loro tavola e di conseguenza la loro salute. Ma in loro si è fatta strada anche la falsa convinzione che tutto questo sia frutto di questo tempo, del crescente consumismo dell’Occidente, in cui domina un sistema produttivo cinico e spietato, volto solo ai guadagni che le grosse produzioni comportano a scapito della qualità. Di fronte a tale situazione si rimpiangono i tempi andati, irrimediabilmente perduti, in cui non esisteva alcuna diffidenza verso ciò che si mangiava, in cui il cibo era genuino e sano e non nascondeva alcuna insidia. La realtà dei fatti non è però così, tali comuni intendimenti sono del tutto falsi. Molte delle odierne paure alimentari, infatti, non sono altro che l’ultima espressione di un eterno rapporto conflittuale tra l’uomo ed il cibo, in cui hanno sempre trovato spazio truffe, timori di contagio e di intossicazioni.
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I consumatori del passato si trovarono non solo a far fronte al problema della fame e quindi della quantità, ma anche a quello della qualità del cibo. Tali paure alimentari, già a partire dal XIII secolo, sono espresse nella legislazione che regolava il commercio e nella manualistica alimentare. Gli statuti comunali e corporativi di questi secoli contengono, infatti, precise e ricche indicazioni sugli stratagemmi adottati dai commercianti per vendere la loro merce scadente, contraffatta o contaminata. Secondo tali fonti tre erano le principali categorie di alimenti su cui maggiormente si concentravano i timori dei consumatori, ossia carne, pesce e pane. Non che gli altri alimenti fossero al riparo dall’adulterazione, basti citare ad esempio i mille espedienti menzionati in alcuni manuali per “tagliare” il vino o il miele, ma l’attenzione maggiore dedicata dagli statuti a queste tre categorie di alimenti non lascia dubbio che fossero quelle più pericolose per la salute pubblica. Ovviamente in mancanza di una tecnologia del freddo la preoccupazione principale del legislatore era rivolta a carne e pesce, quelli cioè maggiormente deperibili. Per tale ragione si imponeva la loro vendita al giorno della macellazione o della pesca e a quello seguente, scaduto il quale si doveva passare alla salagione o alla cottura. La giusta freschezza degli alimenti era data da un accurato esame visivo ed olfattivo da parte del consumatore a cui il commerciante non poteva obiettare.
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Nonostante ciò esistevano vari stratagemmi a cui i venditori ricorrevano per depistare gli acquirenti. Il più diffuso era quello di tagliare l’animale nella zona del ventre ed insufflare aria al suo interno, per renderla artificialmente più distesa e tonica. Tale pratica era assolutamente vietata tanto più perchè ritenuta fonte pericolosissima di contagio, dall’alito umano alla carne dell’animale. La carne era controllata dal servizio municipale non solo per la freschezza, ma anche perchè ritenuta possibile vettore di malattia e fonte di contagio. Tra tutti gli animali quello più temuto e quindi controllato era senz’altro il maiale. Un primo controllo veniva effettuato sugli animali ancora in vita, con particolare attenzione alla lingua, ed un altro dopo l’abbattimento per verificare che non ci fossero larve incistate tra le sue fasce muscolari. A Parigi a seguito dell’ispezione sanitaria, l’orecchio veniva siglato se si riscontravano tracce leggere di contaminazione, mentre veniva tagliato se la malattia era diagnosticata con certezza. La testa del maiale fungeva quindi da vera e propria etichetta informativa per l’acquirente e quindi era obbligatorio esporla insieme alla carne dell’animale. Allo stesso modo il pesce ispezionato e giudicato atto alla vendita veniva inciso con un segno come garanzia di qualità.

Molta attenzione veniva prestata anche alla nutrizione del bestiame. Esisteva una bella differenza di prezzo ad esempio tra maiali allevati allo stato brado fuori le mura cittadine, che si cibavano solo di ghiande e radici, rispetto a quelli allevati entro le mura, cresciuti con scarti alimentari vari. Anche per il bestiame allevato in città e che si cibava di ogni lordura che trovava in giro, esistevano delle ordinanze che vietavano la macellazione e vendita di bestie vissute nei pressi di luoghi da cui avesse potuto attingere nutrimento sospetto.
Ad influenzare il consumatore medievale era soprattutto il colore del cibo, in particolare veniva prediletto su tutti il bianco. L’alimento bianco era in genere ritenuto più salubre di altri e non contaminato dalla corruzione organica. Si riteneva, infatti, che avesse il potere di neutralizzare la bile nera, ossia l’umore nefasto colpevole, secondo la medicina del tempo, di causare molteplici malattie. I commercianti, però, riuscirono a sfruttare questo luogo comune a proprio vantaggio usando vari espedienti. Illuminare il banco con molte candele serviva, ad esempio, a ridare al lardo ingiallito il candore perduto. O peggio c’era l’uso, peraltro a ragione severamente bandito, di sbiancare artificialmente il pesce impastandolo di calce.
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Non si deve poi dimenticare che furono i cereali a mietere il maggior numero di vittime per intossicazione alimentare. L’ergotismo, meglio conosciuto come “fuoco sacro” o “fuoco di Sant’Antonio”, era una malattia diffusissima in tutta l’Europa medievale, che nelle sue forme più acute portava alla morte, ma molto più spesso alla paralisi progressiva degli arti, alla gangrena e poi all’amputazione di questi. Il nesso con il fungo Claviceps purpurea della segale venne compreso secoli dopo, ma già allora si intuì una sua relazione con le annate di carestia. Durante questi periodi, infatti, la fame spingeva la popolazione a mangiare insieme ai chicchi sani anche quelli più grossi e dal sapore sgradevole attaccati dal fungo, che normalmente nelle annate di abbondanza erano scartati. Molto frequenti e non meno nocive erano poi le adulterazioni delle farine e quindi del pane. Erasmo da Rotterdam nei Colloqui si lamenta, ad esempio, che sulla tavola del suo ospite veneziano Francesco d’Asola viene servito pane in cui per un buon terzo è mescolata argilla!

Si può affermare con certezza, quindi, che ieri come oggi nulla è cambiato e che il cibo era e rimarrà sempre un grosso affare!

lunedì, ottobre 29, 2007

Il giro della Grecia in punta di forchetta: Monte Athos


Comminando nel deserto del Monte Athos: solo per uomini.
Chi cerca la pace interiore, non è necessario che vada lontano. Abbiamo accanto a noi un posto ove le misure umane non contano. Alcuni giorni nella spiritualità della penisola di Sithonia sono un’esperienza che ogni uomo dovrebbe vivere almeno una volta nella vita.
Il pellegrinaggio nel giardino della Madonna ha inizio dal molo di Ouranoupoli, situato accanto alla torre bizantina, simbolo della città. Da lì la piccola barca issa l’ancora alla volta un altro mondo, un mondo con una filosofia diversa, abitudini diverse, ora e data diversa, un mondo che vive in un’altra epoca, da qualche parte negli anni dell’Impero Bizantino. Un gruppo di soli uomini, accompagnato dai gabbiani che volano sulle loro teste, inizia con la loro barca ad avvicinarsi ai moli dei diversi monasteri incontrati lungo la rotta. Per primo gli si è presentato innanzi il molo Giovanitsa, del monastero serbo di Hilandariou e dopo quello del monastero bulgaro di Moni Zografou, due dei monasteri che custodiscono alcuni dei cimeli più importanti ed originali del Monte Athos.
La loro meta è il monastero russo, Moni Aghiou Panteleimona, che si adagia sulle rocce della costa occidentale dell’Athos. Si tratta di un’intera città con cupole bianche e verdi. Qua “suona” la seconda più grande campana del mondo, del peso di 14 tonnellate, che può essere ascoltata in tutta la penisola. E’ uno dei monasteri più luminosi e colorati della Montagna Santa. Dalle innumerevoli grandi finestre degli otto cupoloni penetra intensa la luce, facendo sì che tutto appaia surreale. Qui vivono pochi monaci anziani, che permettono ad un numero limitatissimo di persone di soggiornare. Il nostro amico è uno di essi.
La natura che circonda il monastero profuma di fiori, una varietà illimitata, di pini, ulivi, allori... testimonianza che ogni fiore, ogni cespuglio ed ogni albero ivi collocato è frutto di Madre Natura, lasciata in pace! Il posto è veramente benedetto. Ogni tanto, attraverso la fitta vegetazione, si aprono finestre sull’azzurro del golfo Siggitikos.
Appena si arriva al monastero si viene accolti con una processione di benvenuto. Vengono offerti tsipouro, loukoumi, caffé ed acqua e si assegnano le camere.
La camera assegnata al nostro amico ha un balconcino sospeso ad un’altezza di 80 metri sul mare, che gli permette di godere una vista magica, di sotto l’orletto della spiaggia, davanti a lui l’arcipelago ed in fondo il tramonto. Una prospettiva diversa nell’assaporare l’attimo...
E’ arrivata l’ora della cena, si sono fatte già le cinque di pomeriggio. Qui, nell’arca chiamata Athos gli orologi scorrono con l’ora bizantina, la giornata comincia con il tramonto del sole, cioè alle 12 in base all’ora locale. Sotto lo sguardo dei santi appesi sui muri si comincia a mangiare in modo silenzioso e l’unica voce che risuona è quella dell’anagnostis, il quale narra le vite severe degli asceti per prendere il sopravvento sulle sensazioni... il cibo è un pezzo inseparabile della teleturgia di ogni monastero ed è circondato dallo stesso raccoglimento che necessita anche la preghiera. Si servono del pesce con i carciofi, del pane e della feta. I cibi sono di una gustosità incomparabile, visto che per preparali si utilizzano ingredienti prodotti dagli stessi monaci, nei loro orti, nei loro vigneti e nei loro uliveti, che coronano ogni monastero.
Durante la notte, passata sul letto di ferro battuto, la luce della lampada a petrolio ha fatto pure lei la sua parte nel creare l’atmosfera misteriosa, che ha accompagnato il nostro amico fino alle prime luci dell’alba, quando i primi raggi del sole hanno iniziato a giocare, attraversando la piccola finestra della sua camera.
La prima mattina ha fatto una camminata di tre ore al confine tra il verde e l’azzurro, un vero godimento per i sensi. Si è fermato presso una sorgente di acqua cristallina e gelata, circondata da castagni secolari. Al suo rientro, per ora di pranzo, i monaci hanno apparecchiato il tavolo sotto il gelso del monastero. Pita di zucchine con formaggio e sesamo, polpette di zucchine, zuppa di tahini, pane integrale, olive e pomodori erano donati come l’unico elisir per la salute dell’essere umano. Chiacchierando con il cuoco, il nostro amico, gli ha parlato dell’esistenza di questo blog e del progetto postvacanziero della “Grecia in punta di forchetta”. Il monaco-cuoco, sorridendo e guardando verso il mare, decide allora di offrire i suoi segreti per i due semplicissimi piatti offerti per pranzo.
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Pita con zucchine, formaggio e sesamo nero.
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Ingredienti: 1 Kg di zucchine, 4 patate di media grandezza, sbucciate e tagliate a fette sottili, ½ Kg di formaggio di pecora, 150 gr di feta, 2 pomodori tagliati a pezzetti, 2 cucchiai di mentuccia tagliata finemente, farina q.b., 1 cucchiaino di semi di sesamo bianco ed uno di sesamo nero, 1 tazza di olio extravergine di oliva, sale.
Tagliamo le zucchine a fette sottili, le saliamo e le mettiamo in uno scolapasta a sgocciolare per 2-3 ore. Mescoliamo le zucchine scolate con i pomodori ed una parte dell’olio. Condiamo le patate con l’altra parte dell’olio. Ungiamo una teglia e facciamo uno strato di patate. Aggiungiamo sopra il formaggio di pecora a dadini e copriamo con uno strato di zucchine, cospargiamo con un velo di farina, la feta sbriciolata e la mentuccia. Ripetiamo il procedimento ed infine facciamo l’ultimo strato con il formaggio, mescolato al sesamo. Cuociamo in forno a 180° per 1 ora e ½. Va servita tiepida.
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Polpette di zucchine
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Ingredienti: 5 grosse zucchine, farina q.b., 250 gr di feta sbriciolata, 100 gr di caciotta di mucca grattugiata, 2-3 cipollotti tritati, un mazzetto di menta, 1 tazza e ½ di semi di sesamo, 1 tazza e ½ di farina di mais, 1 tazza e ½ di pangrattato, 6 uova battute, olio per friggere.

Tagliate a cubetti le zucchine e mettetele in una ciotola, cospargetele di farina, giratele fino a che ne siano ben ricoperte. Friggetele in abbondante olio, scolatele su carta assorbente e lasciatele freddare. In una bastardella mescolate la feta, la caciotta, la menta e le zucchine fritte. Fatene delle palline schiacciate. In un piatto mescolate il pangrattato, la farina di mais ed il sesamo. In un altro mettete le uova battute ed in una altro ancora della farina. Passate ogni polpetta prima nell’uovo, poi nella farina, poi ancora nell’uovo e dopo nella mistura di sesamo. Friggetele in abbondante olio. Fatele sgocciolare su carta assorbente e sevitele calde calde.

giovedì, ottobre 11, 2007

Il giro della Grecia in punta di forchetta: le Cicladi


Quest’estate, già prima dell’inizio delle vacanze, avevo una gran voglia di esplorazioni enogastronomiche. Ho preparato i bagagli ed ho dato il via alla mia tourné gourmet. Obiettivo? Scoprire le migliori specialità locali.
Nella cucina cicladica l’influenza eneta è evidente. Durante gli anni le cuoche isolane hanno trovato le modalità più facili per sfruttare al meglio la pochissima materia prima delle loro terre quasi secche. Da nessuna parte ho sentito così intensamente lo spirito dell’austerità, quanto nelle aride isole dell’arcipelago delle Cicladi. Per percepire tali invenzioni semplicistiche, è necessario che qualcuno spalmi sul pane un’insalata di sedano aromatizzata con capperi, cipolla secca e aglio, specialità dell’isola di Siros. Sarebbe necessario, almeno una volta, assaggiare le frittelle di finocchio a Tinos o le polpette di ceci a Sifnos.
Gli insaccati delle Cicladi, come pure i loro formaggi, hanno un sapore che viene inciso in maniera incancellabile nella memoria, come un tramonto sulle strade di Delos o di fronte alla caldera del vulcano di Santorino.
Non è semplice parlare delle quasi venti isole ed isolette che formano l’arcipelago delle Cicladi e delle specialità locali, ma vorrei raccomandare ai futuri viaggiatori ed avventurieri di non andar mai via senza aver prima assaggiato la pita di cipolle a Mikonos, il coniglio con l’origano a Tinos, lo sgombro con i capperi a Siros e le omelette di fave a Santorino.
In questi luoghi i dolci sono anch’essi, per la maggior parte, semplici. Sfruttano al meglio le risorse locali e sono a base di mandorle, di poca frutta e di miele. C’è l’abitudine, inoltre, di preparare dolci sciroppati come il cocomero di Ios ed il fico croccante di Tinos.
In poche parole i sapori della cucina regionale di queste isole fanno sì che tutti coloro che li proveranno racconteranno di un’esperienza gastronomica indimenticabile.
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Sardine in foglie di vite con salsa alle olive verdi
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Ingredienti per la salsa: 400 gr di olive verdi snocciolate, 2 spicchi di aglio ridotti in polpa, due ciuffi di coriandolo, 400 ml di olio extravergine di oliva, sale e pepe.

Ingredienti per il pesce: 18 grandi e fresche sardine, 18 grandi foglie di vite, 4 cucchiai di olio, il succo di mezzo limone, sale affumicato e pepe.

Mettiamo nel mixer tutti gli ingredienti per la salsa (facendo attenzione che non diventi troppo cremosa), tranne il coriandolo che triterete a parte con il coltello e che aggiungerete quando la salsa è pronta. Puliamo e laviamo le sardine, avvolgiamone ognuna con una foglia di vite. Ungiamole con l’olio ed insaporiamole con sale e pepe. Cuociamo le sardine in una padella antiaderente un paio di minuti per ogni lato. Serviamo le sardine con una spruzzata di limone e con un po’ di salsa di olive.

lunedì, ottobre 01, 2007

Un Meme… di gusto


Sino ad oggi ho evitato con cura di essere contagiata dalla meme-mania, glissando ogni invito… e puntando sullo sfinimento di coloro che tentavano ogni volta di coinvolgermi. Non è che li snobbassi per superbia… semplicemente amo raccontarmi in modo diverso. Voglio che le mie ricette e i miei racconti siano tessere di un mosaico che si compone piano piano, rivelando alla fine ciò che sono. Questa volta, tuttavia, il meme passatomi da Mara un po’ mi ha intrigato. Si trattava di parlare di 8 cose di sé riguardanti il gusto... e così ho intrapreso questo viaggio nel cibo, nel gusto, negli odori della mia memoria, con la considerazione che, come diceva Brillat-Savarin, “il gusto è un atto del nostro giudizio, con il quale noi diamo la preferenza alle cose che sono piacevoli al gusto su quelle che possiedono questa qualità”.
  1. La pasta fresca... o meglio prepararla. Non arrivavo ancora all’altezza del tavolino, quando ho iniziato ad impastare acqua e farina. Il mio primo ricordo olfattivo è proprio quello della pasta all’uovo, che ogni fine settimana mia nonna Maria preparava. Per me era il momento più felice della giornata; salivo su una sedia e la osservavo con attenzione, seguendo i movimenti delle mani e delle braccia. Lei guardandomi compiaciuta mi metteva davanti un mucchietto di farina ed un bicchiere di acqua tiepida, mi diceva come fare e controllava infine se l’impasto fosse della durezza giusta; l’unica cosa che non mi era concessa era tagliare la pasta. Una Domenica, avrò avuto 6 o 7 anni, mio nonno mi regalò una piccola spianatoia, che aveva fatto fare appositamente per me... non me ne sono mai separata, ce l’ho ancora.

  2. Il caffé. Lo bevo ovunque, sempre e comunque. Da piccola avevo una moka da una tazza, con cui mia mamma mi preparava l’orzo, ma io, nonostante non fosse caffé, mi sentivo lo stesso molto cool... e comunque nei momenti di distrazione ne rubavo un sorso di quello vero. Ancora oggi preferisco quello della moka, ma non disdegno gli altri tipi... lo detesto solo sottoforma di gelato.

  3. Il vino. Un vizio che mia ha passato mio nonno Antonio... diceva che “fa sangue” e me ne dava un po’ allungandolo sempre con la “gazzosa”, quella di una volta però, nelle bottigliette di vetro, che oggi non esiste quasi più.

  4. Il parmigiano. Sulla pasta ne metto sempre in quantità esagerate... in particolare sulle fettuccine al sugo di carne. Anche questo è un vizio che mi a passato il nonno... a lui piaceva metterne molto sulla pasta e spingendo me a mangiarne tanto (mi diceva che così mi sarebbe cresciuto il seno), evitava i rimproveri della nonna, che glielo vietava per via della sua pressione alta.

  5. I mezè. Quando sono in Grecia, nella calura delle giornate estive non c’è cosa che ami di più che sedermi in una taverna in riva al mare e mangiare mezè, davanti ad un bicchiere di ouzo ghiacciato, godendomi la brezza profumata di salsedine che viene dal mare. I mezè o mezedes sono degli antipastini caldi o freddi, che variano a seconda del posto e della stagione. Possono essere delle salsine (tzatziki, melinzanosalata, taramà....), dei formaggi (quasi sempre feta), delle insalate, delle verdure, o piccoli pesci marinati, fritti o alla griglia... etc. etc.

  6. La rucola. Hanno tentato di farmela mangiare in tutti i modi... ma proprio non ne sopporto il sapore, che mi da la nausea.

  7. Il polipo alla griglia... per me sinonimo di vacanza. In estate, in tutti i posti di mare della Grecia, mi piace vederlo penzolare dalle cordicelle, in attesa che il sole lo prepari a danzare sulle braci ardenti.

  8. Gli erbaggi selvatici bolliti o crudi. Mi hanno aperto innumerevoli porte sul mondo dei sapori... sapori originali e schietti, che ti mettono in contatto, attraverso un linguaggio primordiale, con la madre terra. In tutte le stagioni faccio sì che accompagnino primi o secondi, o che siano la mia insalata.

Chiudendo, visto che non è giusto pretendere da altri cose che con difficoltà accetto di fare io stessa, non inviterò altri blogger a continuare questo gioco. E se questo dovesse risultare la fine della piramide non mi interessa più di tanto. Anche se, certe volte, non possiamo cominciare qualcosa, è di conforto potervi porre fine. Se però chiunque di voi leggendo questo post si offrisse, volontariamente, di continuare sarò felice di osservarlo e sarà come se l’avessi invitato.

martedì, settembre 18, 2007

La mia cucina, il centro del mio mondo


La vita comincia a ritornare pian piano ai normali ritmi; la lavatrice fa gli straordinari e la pila di libri sul comodino cresce in altezza: Kavafis, una valida costante nell’ultimo decennio, di cui mi è impossibile saziarmi, passerà un’altro inverno accanto a me. Allan Bay dopo un inverno darà il suo posto a Christos Zuraris per questioni “stilistiche”. Per il resto comfort food ed archeologia, forniranno il calore necessario, indispensabile per le fredde notti invernali e la vita continua, grazie a Dio...
Un’altra pila, però, che parte dal pavimento e supera in altezza il comodino, ha il monopolio del mio interesse negli ultimi giorni: libri di cucina e quaderni di mie ricette sono richiamati alle armi. Prendo appunti e creo gli abbinamenti di conoscenti ed amici per le tavolate che seguiranno, accompagnate dal menù che preparerò per ogni occasione. Idonè!
Cercherò di raccontarvi le cene delle mie vacanze, un giro della Grecia in punta di forchetta, poiché tali racconti e le discussioni che seguiranno mi aiuteranno a rivivere i momenti che hanno segnato la mia estate. Durante tutte le vacanze, la “distanza” dalla mia cucina e la “vicinanza” alle cucine altrui mi ha fatto sorgere una domanda: che cosa mi piace di più, mangiare o cucinare? Anche se il cibo è il secondo più grande piacere della vita (il primo è rappresentato da conversazioni veloci, profonde ed intelligenti...), cucinare sicuramente mi emoziona di più, perchè la cucina è attiva ed il cibo è qualcosa di più passivo, ma di tutte le cose passive al mondo certamente la migliore.
Per il momento, mi perdo nei miei libri ed appunti, penso a dei menù e a degli amici, e monologando ripeto: “la mia cucina, il centro del mio mondo”.

martedì, agosto 14, 2007

Vacanze...


Buone vacanze e buon Ferragosto a tutti!

lunedì, luglio 16, 2007

Una Regina a tavola

Il pesce affumicato è una delle pietanze che più adoro. Mi piace quel sentore di legno bruciato sul palato… che evoca antichi sapori.
Nella Cornucopia di Esperya ho trovato la Regina friulana di S. Daniele, o meglio un eccezionale filetto di trota salmonata salato a secco e affumicato a freddo (la temperatura non supera i 27°C) con una speciale miscela di farine di legno, erbe e bacche aromatiche. Mi piace sapere che esistono ancora artigiani in grado di realizzare prodotti seguendo antiche pratiche e mantenendo vivi sapori e qualità di cibi, che altrimenti sarebbero scomparsi da tempo.
La salatura e l’affumicatura a freddo sono metodiche che affondano le loro origini in tempi antichi… nel Medioevo, infatti, le genti erano solite consumare soprattutto pesce d’acqua dolce (quello di acqua salata era più difficile da reperire e quindi più costoso), in particolare d’allevamento e quindi facile da pescare, fresco o conservato sotto sale o affumicato. Il pesce si deteriora facilmente, soprattutto d’estate quando, a causa delle alte temperature, si decompone rapidamente. Inoltre, durante i lunghi periodi di digiuno e proibizione della carne, l’Avvento e la Quaresima, il pesce costituiva un valido sostituto e la pietanza principale di ogni tavola. La metodica migliore per conservare il pesce, senza che si danneggiasse, era quindi la salatura e l’affumicatura, che svolgevano funzione antisettica ed impedivano quindi l’aggressione dei batteri.
Le trote d’allevamento, dopo essere state pescate e pulite, venivano sciacquate in grosse vasche colme di acqua dolce, poi sistemate per bene in barili a strati alterni di sale. La successiva affumicatura richiedeva lunghe manipolazioni: venivano dissalate in acqua dolce, fatte sgocciolare e sospese ad aste orizzontali, all’interno di locali chiusi dove ardeva dolcemente un fuoco di trucioli di legno (per lo più faggio) e bacche profumate, che sviluppavano un denso fumo. La temperatura non doveva oltrepassare i 24-28°C per non rischiare di cuocere il pesce, che doveva essere esposto al fumo per un tempo di almeno 36 ore.
Il filetto di trota affumicata è molto versatile nei piatti estivi, io ad esempio ho realizzato queste bruschette molto fresche, ideali per una cena in terrazza o in giardino.
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Bruschette con crema di peperoni e fette di Regina di S. Daniele
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Ingredienti: 6 fette di pane integrale, 5 peperoni rossi carnosi, 1 spicchio d’aglio, 1 cucchiaio e ½ di olio extravergine di oliva, 12 fette di filetto di Regina di S. Daniele, il succo di 1 limone, 1 cucchiaino di miele di arancio, 1 cucchiaio di pinoli, aneto fresco, la buccia grattugiata di un limone, sale e pepe nero macinato fresco.

Mettete le fette di trota in un piatto e versateci sopra il succo di limone che avrete emulsionato con il miele di arancio, mette in frigorifero per un paio d’ore.
Avvolgete i peperoni uno per uno nella carta stagnola e metteteli in forno a 200°C, girandoli di tanto in tanto, fin quando siano ben cotti. Spellateli, privateli dei semi e lasciateli raffreddare. Mettiamoli nel mixer, insieme con i pinoli e l’aglio, fin quando diventano una crema, che andremo a condire con l’olio, il sale ed il pepe.Facciamo bruschettare le fette di pane. Su ognuna mettiamo una bella cucchiaiata di crema di peperoni ed un paio di fette di trota. Cospargiamo di aneto fresco e buccia di limone grattugiato.

mercoledì, luglio 11, 2007

Una moderna caverna di Alì Babà carica di provocanti tesori enogastronomici

Dietro ogni piatto si trova il cuoco e il tempo...
e dietro il tempo la conoscenza.
Dietro tutto questo la materia prima, il sole, la pioggia e la volontà.
Orizzontidelgusto

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Metopa con Eracle che riceve da Atlante i pomi delle Esperidi
468-456 a.C. Olimpia, Museo Archeologico
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Per l’Estetica, dei cinque sensi, solo la vista e l’udito servono la funzione sensoriale e di conseguenza l’arte, e questo perché sono gli unici che ricevono stimoli a distanza e possono funzionare non solo per conservare l’essere, ma anche per il suo godimento spirituale.
Se allora accettassimo – ipotizzo io – che un altro senso, il gusto, senza dubbio si occupi della conservazione dell’essere, e sotto certe condizioni costituisca un godimento spirituale, che cosa resterebbe per elevare la cucina in arte? Trovare un metodo, attraverso cui potremo “incontrare” la nostra materia prima di qualità facilmente ed in qualsiasi momento. Impresa ardua! Ci vorrebbero delle persone con una grande passione, voglia e pazienza, per percorrere il territorio italiano cercando i diamanti della tradizione italiana, che sono il filo di continuità dell’autentica enogastronomia regionale e che sono in pericolo di estinzione. In questo modo viene arricchito il repertorio della guerriera enogastronomia italiana di oggi, mettendo in scena rare delizie.
Esiste un sito, che si chiama Esperya, il cui nome deriva dal greco antico ed indicava la terra d’occidente, o meglio era l’antico nome che i greci davano all’Italia. Per la mitologia greca, inoltre, indicava una delle Esperidi, Esperya appunto, custodi del giardino dei frutti d’oro, di proprietà di Era, regina degli dei, e luogo ove gli dei si recavano al termine del giorno per ristorarsi e godere dei frutti della natura, cullati dal lieto rincorrersi delle onde e dal canto degli uccelli. Moderna custode, quindi, dei frutti d’oro della terra italiana.
Esperya, infatti, nasconde delle sorprese enogastronomiche, che difficilmente si possono trovare concentrate in un unico posto... un Corno dell’Abbondanza, un Arca del gusto.
Un tale sforzo si può giudicare solo quando giunge alla giusta maturazione, quando supera i passi incerti dei primi anni, mostrando ciò che veramente riesce a raggiungere. Offrirà ai produttori le giuste condizioni di presentazione delle loro delizie? Riuscirà ad avvicinarsi ed emozionare i suoi clienti? Riuscirà a indurre delle tendenze? Tutto mostra che Esperya è pronta a rispondere a queste difficili domande di maturità.
Concludendo vorrei affermare che il consumatore italiano ha a sua disposizione un pacchetto di delizie della terra italiana, accompagnate dalle giuste informazioni, che permettono al prodotto stesso di esternare la sua vera identità. Questa provocante biblioteca enogastronomica riesce a scacciare la routine dei pasti veloci della quotidianità.
La tradizione italiana può sperare nel binomio originalità e commercio on line... come ultima fortezza del gusto.

sabato, luglio 07, 2007

07-07-07


Il prodigio dei numeri... un argomento che mi ha sempre affascinato. I numeri governano, senza neppure rendercene conto, ogni aspetto della nostra vita... “tutto è un numero” affermavano i Pitagorici! Galileo diceva, inoltre, che l’universo è “scritto con il linguaggio dei numeri”. Il linguaggio dei numeri, infatti, si fa leggere e capire da noi in modo più preciso e non controverso... le osservazioni quantitative della realtà sono più precise, meno soggettive, e quindi più oggettive di quelle qualitative! Uno dei numeri che più mi affascina è il 7... fin dall'antichità, considerato un numero magico e misterioso. Gran parte delle proprietà attribuitegli risalgono all'astrologia babilonese che per prima aveva riconosciuto 7 pianeti ed aveva diviso il mese lunare in cicli di 7 giorni. Il 7 venne quindi considerato sacro proprio perché allora rappresentava il cosmo e la sua perfezione. Tutte le civiltà antiche hanno sviluppato un sim­bolismo numerico e in molte di esse il 7 è considerato numero sacro, unico e immobile. Secondo la scuola pitagorica il 7 è “amitor” (senza madre) in quanto non è un prodotto fattoriale ed è generato solo dall'unità. E’ simbolo di perfezione in quanto risultato della somma del 3 (lo spirito, il maschile) e del 4 (la materia, il femminile), che esprimono due forme perfette: il triangolo equilatero ed i quadrato. Essi sono anche i numeri basilari della Piramide (la base quadrata, i quattro lati triangolari). Per tale ragione, in epoca antica, il sette veniva rappresentato come un quadrato sormontato da un triangolo.
I Greci associavano il 7 all’adorazione di Apollo e di Selene. Sette erano le vacche sacre del dio cantati da Omero (“All'isola della Trinacria arriverai: là numerose pascolano le vacche e le pingue grecci del sole, sette armenti di vacche e sette belle greggi di pecore...” Odissea, XII, 127-133) e sette le corde della lira (strumento al dio tanto caro). Nella mitologia sette erano i fanciulli e sette le fanciulle inviate a Creta come pasto per il Minotauro. Il 7° giorno dalla nascita si dava il nome al neonato... ed ogni 7° giorno gli Spartani facevano sacrifici ad Apollo! Sempre nella tradizione greca, 7 erano i Sapienti e 7 le Meraviglie del Mondo, sintesi della perfetta armonia tra pensiero ed azione. Il sistema Tolemaico poneva al centro dell'Universo la terra, attorno a cui ruotavano, sette sfere concentriche dette Cieli (la Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno). Sette sono anche le stelle che compongono l’Orsa Maggiore ed altrettante quelle che formano l’Orsa Minore. Il numero 7 è anche un numero ricorrente nella storia di Roma. La città è stata costruita su 7 Colli (Capitolino, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale, Celio e Aventino). Fondata da Romolo il 21 (multiplo di 7) Aprile, è stata governata da 7 re (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tuillo e Tarquínio il Superbo). La leggenda vuole, poi, che la città divenne "eterna” per 7 oggetti ivi condotti perché di buon auspicio: l'ago di Cibele (una pietra nera adorata in Asia minore); la quadriga donata dalla città di Veio; le ceneri di Oreste, figlio di Agamennone; lo scettro di Priamo, re di Troia; il velo di Ilione; la statua di Atena Pallade; i dodici scudi Ancili. Roma è, inoltre, la città delle 7 Chiese (le 4 Basiliche maggiori - S. Pietro in Vaticano, S. Giovanni in Laterano, S. Maria Maggiore, S. Paolo fuori le mura - e le 3 Basiliche minori di S. Sebastiano sull'Appia, S. Croce in Gerusalemme e S. Lorenzo fuori le mura). Gli Egiziani contarono “sette bracci” del Nilo; 7 erano gli scorpioni che accompagnavano sempre la dea Iside; 7 erano le vacche grasse e 7 quelle magre ed altrettante le spighe sognate dal faraone, premonizione di sette anni di abbondanza in tutto l'Egitto, seguiti da sette anni di carestia. Nell'Antico Testamento il 7 compare ricorrente: tanti sono i nomi usati per indicare la terra e altrettanti per il cielo; nell'Apocalisse di San Giovanni il sette vi ricorre cinquantaquattro volte: la fine dei mondo sarà annunciata dalla rottura dei 7 Sigilli, seguita dal suono di 7 trombe per bocca di 7 Angeli, quindi dai 7 Portenti e infine dal versamento delle 7 Coppe dell'ira di Dio. Nel Nuovo Testamento, 7 sono i Sacramenti, i doni dello Spirito Santo, i Peccati Capitali (gola, lussuria, avarizia, superbia, accidia, invidia e ira) e le Virtù, 4 cardinali (forza, sapienza, giustizia e temperanza) e 3 teologali (fede, speranza e carità). Nell'Ebraismo, 7 sono le luci del candelabro sacro (Menorah), simbolo della fede eternamente accesa; il Sabato, settimo di una serie di giorni, è il giorno della Creazione e quindi del riposo dedicato al culto; l'anno sabbatico è il settimo di una serie di anni: è l'anno della “remissione”, nel quale dovevano essere sospesi i lavori dei campi, per permettere il riposo agli animali e agli uomini; il settimo di 7 anni sabbatici era l'anno del giubileo (il nome viene dall'ebraico “ jobhel ” che significa “ corno di montone ” con il quale sette sacerdoti, alla fine dell'ultimo anno di ogni ciclo di sette anni sabbatici, compivano per 7 giorni il giro di Gerico e l’ultimo giorno percorrevano 7 volte le mura della città, annunciando l'inizio del cinquantesimo anno, durante il quale non si doveva seminare, né mietere e né vendemmiare). Il settimo giorno dalla nascita avveniva la circoncisione dei maschi; 7 volte venivano assolti i peccati e 7 era il simbolo della perfezione che contiene il loro simbolo etnico, la stella di David. Nella Kabbala, poi, l'uomo è rappresentato triplice nell'essenza, ma settemplice nell'evoluzione: ha capacità vegetativa (nascita e sviluppo del corpo), nutritiva (mantenimento del corpo), sensitiva (contatti sensoriali col mondo fenomenico), intellettiva (riflessioni e sintesi), sociale (rapporti con i suoi simili), naturale (rapporti con la natura) e divina (capacità di armonizzare la vita con la realtà di Dio).
Anche nella tradizione coranica il sette ha un significato particolare: sette sono le porte dell'inferno ed il mondo è sorretto da 7 colonne poggiate sulle spalle di un gigante, a sua volta sostenuto da un'aquila, che posa su una balena che nuota nel Mare Eterno. Secondo la Baghavad Gita, il libro sacro dell'Induismo, 7 erano gli illuminati del Veda dell'India, emanati ed illuminati da Agni, il fuoco sacro, simbolo del focolare domestico e della famiglia. I buddisti definiscono, inoltre, l'uomo come Saptaparna , “pianta a sette foglie” attribuendogli sette principi: “Atma”, che significa “scintilla divina”, “Budhi” che è lo “Spirito”, “Manas” l'“Anima”, “Kama Rupa” gli “istinti”, “Shtula Sarira”, la “materia”, “Linga Sorira” il “corpo astrale” e, infine, il “Prana”, che è l'“essenza della vita”, lo “Pneuma dei greci”, lo “Spiritus” dei romani o il “K'i taoista”. Del numero sette scrisse anche S. Agostino: “Anche della perfezione del numero sette si possono dire molte cose...: il primo numero intero dispari è tre, il quattro è un numero intero pari e dalla loro somma risulta il numero sette. Ecco perché si adopera spesso per indicare la totalità delle cose, come quando si dice: Il giusto cade sette volte e sette volte risorge; ossia cade ma non perirà, le sue cadute non sono peccati, ma imperfezioni che conducono alla umiltà. E sette volte ti loderò, espressione ripetuta altrove in questi termini: Avrò sempre la sua lode nella mia bocca. Nella sacra Scrittura si trovano molte altre frasi simili nelle quali il numero sette è usato per esprimere in tutte le cose l'universalità. Molte volte poi con questo numero viene indicato lo Spirito Santo, del quale il Signore ha detto: Egli vi ammaestrerà in ogni verità”.

Oggi si svolgeranno due grossi eventi legati al numero 7... il primo, che ha già avuto inizio a Sydney, è il grande concerto del Live Earth che ha luogo in sette città diverse e che unirà centinaia di migliaia di persone al grido di "salviamo il pianeta Terra"!
Il secondo si svolgerà stasera a Lisbona e vedrà l'elezione delle Nuove Sette Meraviglie del mondo... attraverso il voto è stata data la possibilità a tutti noi di riscrivere la storia.

Che il 7 sia con voi!

sabato, giugno 30, 2007

La “luna blu” di Giugno


La definizione astronomica di “blue moon” si ha per la seconda luna piena che si presenta nello stesso mese. Il tempo intercorso tra due lune piene è di circa 29,5 giorni, mentre la durata di un mese è per arrotondamento 30,5 giorni. Questo rende improbabile il fatto che un mese abbia due lune piene anche se certe volte capita... e per questo nella lingua inglese pur di definire la rarità del fenomeno utilizzano la frase “once in a blue moon”, che si tradurrebbe liberamente in italiano “ogni morte di papa”.
In media ci sono 41 mesi in ogni secolo che ospitano due lune piene, cioè si può dire che abbiamo una luna blu una volta ogni due anni e mezzo. Questo fenomeno così eccezionale ha nutrito la fantasia popolare creando delle credenze. La più affascinante per me è quella secondo cui i tre giorni di questa luna piena (vigilia, il giorno stesso e quello dopo) le porte sono aperte... le porte che collegano i messaggeri di una vita parallela a noi...
Lunedì primo Giugno c’è stata la prima luna piena ed oggi Sabato 30 avremo l’occasione di osservare nel cielo la seconda luna piena di Giugno, dopo 200 anni, visto che l’ultima “luna blu” del mese di Giugno è stata quella del 30 Giugno 1806.
Che il bagliore blu di questa luna brilli nei vostri occhi!

giovedì, giugno 28, 2007

Dal fico al fegato

La bellezza lussureggiante di un fico maturo e morbido, pronto a cadere dal ramo dell’albero, è un’immagine simbolo del paesaggio dell’estate mediterranea.
Il fico è un frutto di altissimo valore nutrizionale e pieno di simbologia. Il lattificcio bianco che fuoriesce piano piano, dopo il distacco del frutto dall’albero, simboleggia lo sperma maschile ed anche il latte materno. I suoi semini simboleggiano la fertilità, la bontà, l’unità e la sapienza.
Sotto un albero di fico la lupa nutrì Romolo e Remo e sui rami sempre del fico Giuda, dopo aver tradito Cristo, si impiccò.
Il fegato, uno dei più importanti organi umani, veniva considerato fin dall’antichità la sede del coraggio, della collera e della paura. La parola “lefkipatias” (colui che ha il fegato bianco) significa codardo, colui cioè che non ha sangue nelle vene. L’associazione del fegato con il coraggio e con la collera si ha anche in altre lingue: in italiano ed in spagnolo si dice rispettivamente “avere fegato” e “tenere higado”. Similmente i francesi utilizzano la frase “avoir les foies blancs” (avere il fegato bianco) e gli inglesi “lily-livered” per definire il vigliacco. Inoltre, essendo sede della collera, ogni qual volta che qualcuno “bolle” nella sua collera in italiano si dice “si mangia il fegato”, mentre in spagnolo “moler los higados”.
Le parole fegato, higado, foie derivano dal greco, attraverso il latino. La parola “sikoti” (fegato in greco), però, da dove origina? Da “siko” (fico) è la risposta, anche se il percorso è lungo e tortuoso. Il fico ha avuto un ruolo cardine nell’alimentazione dei greci antichi. Essi nutrivano certi animali (per lo più oche e maiali) quasi esclusivamente con i fichi, per far si che il loro fegato acquisisse un sapore eccellente. Questa vivanda, qualcosa di simile al foie gras, era chiamato “sikoton ipar” (fegato ficato). Con il tempo, la parola è decaduta ed è rimasto l’aggettivo, sikoton (ficato), che è rimasto a descrivere quel fegato specifico, ma anche il fegato in generale. I romani presero dai greci il “sikoton ipar” e tradussero alla lettera chiamandolo “iecur fegatum” e anche qui restò solo l’aggettivo, che designa sino ad oggi quest’organo.
Ci sono tante espressioni metaforiche che hanno come protagonista il fico. Per ciò che non vale niente e che non interessa, in italiano si dice “non vale un fico secco”, mentre in spagnolo “no dar un higo”. Invece, per ciò che non è brutto, ne buono in francese si dice “mi-figue mi-raisin”.
Potrei continuare a lungo descrivendo altri aneddoti glossologici di questi frutti ermafroditi (racchiudono in sé stessi sia la parte maschile, che quella femminile), ma mi fermo qui proponendovi la ricetta che segue, stimolata dalla proposta di FrancescaV.
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Gelato di ricotta di capra con fichi e mandorle caramellate
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Ingredienti per il gelato: 85 gr di ricotta di capra, 30 gr di zucchero, 2 tuorli d’uovo, 250 ml di latte, una presa di sale.

Ingredienti per i fichi: 130 ml di vin santo, 240 ml di vino bianco moscato, 1 cucchiaio di miele, 12 fichi, ½ baccello di vaniglia.

Ingredienti per le mandorle caramellate: 2 cucchiai di acqua, 4 cucchiai di zucchero, 60 gr di mandorle bianche pelate.

Battete i tuorli con lo zucchero, fino ad ottenere una crema. Fate scaldare il latte e versatelo un poco per volta nella crema, mescolando continuamente con una frusta. Mettete il tutto in una casseruola, ponete su fornello a fiamma bassa e continuando sempre a mescolare, aggiungetevi la ricotta. Mescolate fin quando la crema si addensi. Passatela al setaccio, ponetela in un recipiente metallico che coprirete con della pellicola. Raffreddate la crema, ponendo il recipiente in una bacinella con del ghiaccio, e poi mettetela nella gelatiera. In una casseruola versate il vin santo, il vino bianco, il miele ed il baccello di vaniglia. Fate ridurre di un quarto. Togliete da fuoco e lasciate raffreddare. In una padella, su fiamma bassa, fate sciogliere lo zucchero con l’acqua, aggiungete le mandorle, e mescolate con una spatola fino a che si caramellino. Ungete una placca o meglio ancora una tavola di marmo e versateci le mandorle, allargatele bene cercando di dividerle e lasciate raffreddare. Dividete i fichi ognuno in quattro parti. Disponeteli su un piattino e versateci su un cucchiaino di riduzione di vino. Disponete al centro una pallina di gelato e guarnite con le mandorle caramellate.

mercoledì, giugno 20, 2007

Foto-food reportage da Santorini

Thera… come si può resistere alla malìa del mare blu… del cielo azzurro, che contrastano con il colore bianco ed abbagliante delle case, come si può resistere al tramonto… a quelle magnifiche e “sacre” fiamme che incendiano il cielo e si riflettono sul mare… e soprattutto come si può resistere, davanti a questa sinfonia di colori, suoni e sensazioni, ad un bicchiere di ouzo sorseggiato in una taverna dalle sedie azzurre ed accompagnato da deliziose mezèdes. Non ho potuto…
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Kouloures

Accighe marinate

Polipo all'aceto
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Gamberi saganaki

Polipo marinato alle erbe

Frutti di mare con salsa alla menta

sabato, giugno 16, 2007

Buon weekend da Santa Irene


"Πέτρα πικρή, δοκιμασμένη, αγέρωχη... "
Οδυσσέας Ελύτης, Ωδή στη Σαντορίνη
"Pietra amara, provata, indistruttibile..."
Odisseas Elitis, Ovazione a Santorino
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Santorino ha un cuore che pulsa forte, muove le montagne, la terra, il mare... il cuore dei visitatori o si sincronizza con esso - e restano folgorizzati per sempre- o non si sincronizza e scappano!
Mi sono sempre chiesta cosa mi riporta a quest'isola... l'unica risposta vera e completa è IL SILENZIO! A Santorino chiudo gli occhi e palpo la tranquilla forza che si nasconde sotto l' acqua dipinta di blu scuro, come sè Santa Irene delle Lacrime ti volesse suggerire qualche cosa: Santorino è un'isola pericolosa, che deve il suo fascino ad una minaccia che esiste nell'aria. Quelli che la percepiscono non possono che ritornarci sempre... gli magnetizza il suo destino catastrofico, che non la abbandonerà mai, ma anche la convizione che in questo posto la vita è da sempre più forte dalla morte...!

mercoledì, giugno 13, 2007

InWeDay 2007

Dalla copertina del libro Uses of blogs
(Axel Bruns & Joanne Jacobs editors)
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Umberto Eco aveva previsto bene: “il PC ci farà diventare tutti un po’ scrittori”.
Ogni rivoluzione determina delle nuove forme di comunicazione. La rete ha dato origine ai blogs, che sono la forma più rivoluzionaria di comunicare.
Il blogging è una specie di scrittura sperimentale. Da una parte c’è la comodità di un’autoedizione gratuita, che lo “scrittore” può curare quanto vuole fino alla sua pubblicazione, e dall’altra l’autenticità di un grido elettronico. Se calcolassimo l’interazione del mezzo, ossia il rapporto tra posts e commenti nell’arco del tempo – con la spontaneità che vige nella rete – vedremmo un risultato complesso ed eccezionalmente interessante, che incorpora un’insieme di metodiche di comunicazione pubblica, che sino ad oggi erano indipendenti tra loro.
Il blog ha le sue leggi: non è un giornale e neanche un libro. Contiene il suo racconto! Viene redatto attraverso dei posts, con dei passaggi a volte violenti, con improvvisi “voli” da un link all’altro, con un montaggio discontinuo. Infatti, non c’è solo la parola scritta, ma c’è la musica, c’è l’immagine ed anche il video. Direi che esiste un corpo, ma è continuamente in “progress”.
Da archeologa, con profonde radici nell’arte del “ricomporre”, trovo questa associazione a livelli multipli, di così tanti “pezzi” della comunicazione, eccezionalmente attraente.
Per questo ad un certo punto, spontaneamente, ho dato vita al mio blog, che non vuole essere una vetrina di presentazione dei miei “gusti”, né una specie di forum per i miei lettori, ma una breccia nel mio mondo e per lo più nella mia verità, che non è composta solo da parole, immagini o video. Il blog ha dato la possibilità alla mia individualità di esprimersi in modo “criptonimo” (cioè con un’identità nascosta), liberandomi e dandomi la possibilità di parlare senza il mantello della “mitoplasia”, senza l’architettura della narrazione ben curata e senza la teatralità dei ruoli discreti.
Sapendo che una pagina web non è un libro e né un giornale, e per tale ragione viene letta con lo “scanning” (semplice scorrere dell’occhio sulla pagina) o con lo “skimming” (lettura solo dell’inizio delle frasi o dei paragrafi), e che solo se esiste qualcosa di interessante il visitatore si sofferma ad una lettura completa, egoisticamente, cerco di soddisfare il mio bisogno di esprimermi, seguendo solo le 8 regole d’oro della scrittura di Kurt Vonnegut e le mie convinzioni, accompagnate dalle loro psicosi.
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venerdì, giugno 08, 2007

Paximadi: il pane “popolare” dalle origini aristocratiche

Nonostante il “dipiros artos” o “dipiritis” fosse stato un prodotto di necessità, nel corso dei secoli, è stato anche un prodotto ricercato, ossia nei suoi confronti c’è stato un interesse gastronomico, come pure accade oggigiorno.
Dipiritis artos, allora. Era conosciuto fin dall’antichità. Lo consigliava Ippocrate e lo cita pure Aristotele. Le informazioni, però, che ci arrivano dall’antichità non sono tante. Qualcuno avrà osservato che il pane disidratato può conservarsi per lunghi periodi e consumarsi secco, oppure bagnato con l’acqua. Comunque stiano le cose, il dipiritis artos ha rappresentato il cibo dei poveri, dell’esercito e di tutti coloro il cui lavoro li portava a vivere per lunghi periodi lontani da casa. I marinari ed i pecorai facevano sì che non mancasse mai dai loro “fagotti”. La contadina, che non poteva impastare il pane ogni giorno, doveva ricorrere all’umile dipiritos per la sua famiglia.
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Paximadi di Sfakià
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All’inizio del XX secolo la prima immagine che si poteva incontrare entrando in una casa cretese di campagna erano i dipiritos a forma di ciambella, appesi su un bastone. Se si fosse andati dall’altra parte dell’Europa, invece, nelle case dei pescatori svedesi, avremmo visto i famosi “knekerbrad” (molto sottili, ma lunghi) pendere dai soffitti di legno. Era il pane che prendevano con se quando andavano a pesca.
Il nome dipiros artos o dipiritis è dovuto al fatto che viene cotto due volte (una volta come pane e, tagliato a fette, rimesso in forno ad asciugarsi). Furono i Bizantini a dargli il nome di paximàdi in onore del loro inventore, Pàxamos, famoso scrittore del mondo antico che, come ci dice Athineos, si occupò di gastronomia. In epoca bizantina il nome Pàxamos era sinonimo di cibo di grande qualità. Pàxamos visse intorno agli anni di Cristo. Non si conosce esattamente quale sia stato il suo contributo all’evoluzione dell’arte di fare il pane. Forse inventò una metodica, o forse fece semplicemente divenire famosi i poveri paximàdia, dandogli così valore.
Con il passare del tempo il paximàdi divenne sempre più amato. Si produceva sempre ogni qual volta le condizioni erano difficili, al punto da essere associato alla povertà, alla popolazione rurale, ai pecorai ed ai marinai.
Durante il dominio veneziano, i forni di Creta producevano grandissime quantità di paximàdia, destinati alla flotta della Serenissima. Il paximàdi cretese può essere, infatti, a buon diritto definito come uno dei primi prodotti alimentari confezionati.
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Paximàdi di orzo

Il paximàdi dell’esercito

In tempo di guerra l’esercito si cibava quasi esclusivamente di questo alimento. Esisteva addirittura un gruppo speciale che si occupava del suo trasporto e distribuzione. Lo storico Procopio (V sec. d.C.) asserisce, infatti, che il pane destinato all’esercito doveva entrare in forno due volte. Uno dei futuri imperatori di Bisanzio, Giustino, riuscì a sopravvivere grazie ai modesti paximàdia, in una lunga marcia che dall’Illiria lo condusse a Costantinopoli.
Il paximàdi destinato all’esercito bizantino era detto artos buccellatos, per questo i soldati erano chiamati buccellari.

Il paximàdi dei monaci

Nei grandi monasteri i monaci avevano di solito il pane fresco, in quelli piccoli invece i paximàdia rappresentavano il cibo principale. Di solito era di orzo e molto duro. Ovunque si sviluppò l’eremitismo l’unico cibo “ammesso” erano i paximàdia, i frutti e le radici. Tutti monasteri che si trovavano vicino gli eremi, di conseguenza, si assunsero l’incarico del loro rifornimento. Così in questi monasteri si sviluppò in maniera particolare l’arte di fare il dipiritos. Ed ancora oggi nei monasteri cretesi si producono dei paximàdia di qualità eccellente, un esempio tipico è il monastero di Akrotirianì (Toplou) a Sitìa.

I paximàdi dei pescatori di spugna e dei pirati

Per i pirati, che molto spesso immergevano nel lutto le isole dell’Egeo, i paximàdia rappresentavano un’importantissima arma nei loro lunghi viaggi per mare. Pierre Bellon, narra che con un sacco di farina ed uno di paximàdia, una tanica di olio, un vaso di miele, poche trecce di aglio e di cipolla ed un po’ di sale si poteva vivere un intero mese nei viaggi per mare. Pure per i temerari sfuggarades (pescatori di spugne) di Kalimnos che aravano il Mediterraneo nelle profondità per cercare le preziose spugne, rappresentava il compagno più fedele. Infatti, come ci dice Henry Blount (1636), essi si nutrivano fin da piccoli di paximàdia per rimanere magri.


Paximàdi all'anice

Nonostante si creda che la scelta e la conservazione dei paximàdia sia semplice, la realtà è discordante. Il paximàdi deve essere cotto non ad alte temperature; quando lo compriamo dobbiamo stare attenti al suo colore, che dipenderà dalla farina utilizzata. Quelli di grano devono avere un colore dorato; quelli di orzo più scuro. Non bisogna scegliere i paximàdia bruciati in quanto hanno un sapore aspro e perdono il senso della freschezza. La confezione deve essere di buona qualità e non trasmettere il proprio odore al prodotto. Non è necessario che sia chiusa in modo ermetico, ma non deve neanche far sì che venga in contatto diretto con l’aria dell’ambiente. La sua conservazione è semplice. Non c’è bisogno di frigorifero. Ed essendo il suo maggior nemico l’umidità, va tenuto in luogo fresco e asciutto. Di solito può durare un anno intero dalla data di produzione.

Il battesimo dei paximàdia

Il paximàdi può essere consumato secco o bagnato nell’acqua per ammorbidirsi. Il suo “battesimo” necessita di attenzione. Non bisogna lasciarlo per più di pochi secondi, perché non perda la sua fisionomia e si sciolga. A Creta, la regione con la più grande tradizione del pane a doppia cottura, si dice che un buon paximàdi deve rimanere croccante anche dopo il suo “battesimo”, deve essere consumato tranquillamente, deve essere morbido, ma con la presenza di isolotti croccanti. Sono venuta in possesso di dieci ricette preziosissime, originarie di Creta e delle isole del Dodecaneso. Mi cimenterò nella loro realizzazione quando avrò il mio forno a legna (speriamo molto presto).

Kouloures


In base alla forma, i paximàdia cretesi vengono distinti in due grosse categorie: i dakos e le kouloures. I dakos sono fette, tagliate spesse, di pane dalla forma allungata. Le kouloures sono ciambelle tagliate a metà longitudinalmente, che danno origine a due parti, quella inferiore e quella superiore. Ci sono delle regole ferree che determinano la “distribuzione” delle kouloures. All’ospite non viene mai offerta la parte inferiore, in quanto indice che non è il benvenuto. Particolarmente indicativo di mal benevolenza era l’offerta all’ospite della parte inferiore capovolta.

La maniera più comune di servirle è bagnarle, metterci su pomodoro fresco a pezzetti e feta sbriciolata, cosparerle di origano o maggiorana freschi e versarci su un filo di olio extravergine di oliva.

martedì, giugno 05, 2007

Siamo ciò che mangiamo! Un fotoreportage dal TIME.

Giappone: Famiglia Ukita dalla città di Kodaira
Spesa settimanale: 37,699 Yen o $317.25
Cibi favoriti: sashimi, frutta, cake, chips di patate
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Italia: Famiglia Manzo dalla Sicilia
Spesa settimanale: 214.36 Euro o $260.11
Cibi favoriti: pesce, pasta con ragu, hot dogs, pesce surgelato
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Ciad: Famiglia Aboubakar dal campo Breidjing
Spesa settimanale: 685 CFA Francesi o $1.23
Cibi favoriti: zuppa con carne fresca di pecora
.Kuwait: Famiglia Al Haggan da Kuwait City
Spesa settimanale: 63.63 dinar o $221.45
Cibi favoriti: biryani di pollo con riso basmati
.USA: Famiglia Revis dalla Carolina del Nord
Spesa settimanale: $341.98
Cibi favoriti: spaghetti, patate, pollo al sesamo

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.Messico: Famiglia Casales da Cuernavaca
Spesa settimanale: 1,862.78 Pesos Messicani o $189.09
Cibi favoriti: pizza, pasta, pollo, crab
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.Cina: Famiglia Dong da Beijing
Spesa settimanale: 1,233.76 Yuan or $155.06
Cibi favoriti: maiale fritto con salsa di soia dolce
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.Polonia: Famiglia Sobczynscy dalla Konstancin-Jeziorna
Spesa settimanale: 582.48 Zlotys o $151.27
Cibi favoriti: zampe di maiale con carote
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..Egitto: Famiglia Ahmed dal Cairo
Spesa settimanale: 387.85 lire egiziane o $ 68.53
Cibi favoriti: Okra e carne di montone
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.Ecuador: Famiglia Ayme dal Tingo
Spesa settimanale: $31.55
Cibi favoriti: zuppa di patate con cavolo
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.USA: Famiglia Caven dalla California
Spesa settimanale: $159.18
Cibi favoriti: gelato, carne stufata, yogurt ,vongole
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. Mongolia: Famiglia Batsuuri da Ulaanbaatar
Spesa settimanale: 41,985.85 togrogs o $40.02
Cibi favoriti: montone
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.Gran Bretagna: Famiglia Bainton da Cllingbourne Ducis
Spesa settimanale: 155.54 sterline inglesi o $253.15
Cibi favoriti: avocado, sandwich con mayonnaise, cake di cioccolato fondente con crema
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.Bhutan: Famiglia Namgay dal villaggio Shingkhey
Spesa settimanale: 224.93 ngultrum o $5.03
Cibi favoriti: funghi, formaggio e carne di maiale
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.Germania: Faqmiglia Melander da Bargteheide
Spesa settimanale: 375.39 Euro o $500.07
Cibi favoriti: patate fritte con cipolla, bacon, aringa, noodles fritti con uova e formaggio, pizza, pudding di vaniglia

venerdì, giugno 01, 2007

1 Giugno 2007, la giornata di Amalia

La bloggosfera greca è in lutto per la scomparsa di Amalia Kalyvinou, blogger affetta da cancro, che per 17 anni non le era stato diagnosticato. Amalia, nel suo blog "Fakelaki" (Bustarella), racconta tutte le peripezie che il sistema sanitario le ha regalato, tenendo incollati moltissimi lettori. Nel suo ultimo post conclude dicendo: "Che siano i medici ciarlatani l'eccezione, non la regola..."
E' un caso che deve far riflettere perché può capitare a chiunque di noi... I blogger greci sono riusciti ad attirare l'attenzione di tutto il mondo sulla malasanità greca e ad istituire il 1 Giugno la giornata di Amalia.

mercoledì, maggio 16, 2007

I sette vizi capitali: Accidia


E io ch'avea d'error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
(Inf. III, 31-51)
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Il termine, che deriva dal greco ακηδία (akidia), designa la negligenza, l'indifferenza, la noncuranza, il torpore e l’indolenza... indica, inoltre, l'abbattimento, lo scoraggiamento, la prostrazione, la stanchezza, la noia e la depressione dell'uomo di fronte alla vita.
Più che un peccato io lo considero una malattia… uno smarrimento totale, che ci fa perdere l’interesse per le cose importanti della vita. Tutto appare come un peso troppo grande da sopportare, come una fatica immane che proprio non si ha la forza. la volontà… il coraggio di superare. Si sprofonda così nell’ozio, si lasciano le proprie occupazioni, gli interessi, ci si lascia andare ad una vita amorfa, abulica e trascinata.
Voglio, infine, concludere la carrellata dei vizi con un racconto proprio sull’accidia, cha ha origine nell’isola di Kastellorizo (quella in cui è stato girato il film Mediterraneo, di Salvatores) e che ha per protagonisti un pigro… ed i paximàdia (un tipo di pane biscottato, simile alle nostre friselle, e che si mangia bagnato con acqua o brodo)!
C’era una volta un uomo che temeva il lavoro come il diavolo e che era così pigro che se gli si dava del cibo mangiava, altrimenti sarebbe potuto anche morire di fame. Una sera dopo che non era riuscito ancora a mettere niente in bocca, decisa di fingersi morto pur di non dover andar a lavorare… Pensò che era meglio farsi seppellire da vivo piuttosto che lavorare. I vicini, che lo videro steso sul letto, immobile, pensarono davvero che fosse morto e così gli organizzarono il funerale. Mentre lo portavano al cimitero, una donna che lo conosceva esclamò: “Poveretto! Dev’essere morto di fame. L’avessi saputo ieri, gli avrei portato un po’ di paximàdia che ho in casa”. Il pigro, che da dentro la cassa aveva sentito, gridò: “Buoni i paximàdia! Ma me li avresti dati secchi o li avresti bagnati?”… “Secchi” rispose la donna. “Allora tirate dritto al cimitero!” replicò il pigro, che preferì farsi seppellire vivo piuttosto che bagnarsi i paximàdia!
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Paximadia d’orzo con insalata di mare
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Ingredienti: 1 tazza di olio extravergine di oliva, 2 cipolline fresche tritate, 2 spicchi d’aglio sminuzzati, 1 kg di cozze, 2 ½ tazze di vino bianco, 12 gamberi sgusciati, 225 gr di cappesante divise in quattro, 450 gr di calamari piccoli tagliati a pezzetti, ½ tazza di succo di limone, ½ tazza di olive nere snocciolate e tagliate a fette, 1 tazza di cuore di sedano tagliato a fettine sottili, ½ tazza di cipollina fresca tagliata a fettine oblique, ⅓ tazza di brodo di pesce, ½ cucchiaino di zucchero, 2 cucchiai di prezzemolo, 2 cucchiai di menta, 2 cucchiai di aneto, 225 gr di polpa di granchio, 6 paximàdia d’orzo o in alternativa 6 freselle, sale e pepe bianco.
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In un capiente tegame, scaldiamo un cucchiaio di olio a fuoco medio. Aggiungiamo le cipolline tritate e l'aglio. Facciamo soffriggere per un minuto, versiamo le cozze ed annaffiamo con il vino. Alziamo il fuoco, coperchiamo, e lasciamo cuocere per 5 minuti, cosicché le cozze si aprano. Togliamo il tegame dal fuoco e mettiamo le cozze aperte in un piatto a raffreddarsi. Rimettiamo il tegame sul fuoco, abbassiamo un poco la fiamma e versiamoci i gamberi, i calamari e le cappesante e lasciamo cuocere per qualche minuto. Con una schiumarola raccogliamo il pesce e mettiamolo a raffreddare in un piatto. Filtriamo il brodo del pesce e teniamone da parte ⅓ di tazza. Sgusciamo le cozze. In una ciotola versiamo l’olio, il succo di limone, le olive, il sedano, la cipollina fresca, il brodo lo zucchero e le erbette. Saliamo e pepiamo. E mescoliamo tutto leggermente. Versiamoci le cozze ed il pesce. Mescoliamo e copriamo con della pellicola. Mettiamo a riposare in frigorifero per almeno 3 ore. Al momento di servire, bagnamo appena le 6 paximàdia. Le sistemiamo ognuna in un piatto, versiamo sopra qualche cucchiaio di insalata di mare e almeno un paio di cucchiai della loro salsa, in modo che le paximàdia si imbibiscano.

venerdì, maggio 11, 2007

Il ciliegio e l’altalena


Ci sono dei particolari momenti nella vita di ognuno di noi, in cui i sensi restano così profondamente colpiti, da restare incisi nella mente per sempre.
A me capita ad esempio, in questo periodo dell’anno, di ripensare a quando da bambina, durante il fine settimana, andavo nel paese in cui vivevano i miei nonni. Andavamo spesso a mangiare fuori, in un posto circondato dai ciliegi. I proprietari del ristorante avevano appeso ai rami più robusti di alcuni ciliegi delle altalene, fatte di corde e tavole di legno. Non c’era cosa che amassi di più che dondolarmi su quelle altalene… reclinavo la testa all’indietro e guardavo divertita la luce del sole brillare tra rami e foglie. Quando poi era il periodo della fioritura adoravo vedere i petali scendere e cercavo di prenderli con la bocca, senza l’aiuto delle mani, cercando di battere ogni volta il record personale di petali ingoiati. Non riuscivo a smettere di dondolarmi, fin quando non arrivava la voce di mia nonna, che mi chiamava a tavola.
E pensare che l’origine dell’altalena è legata, invece, ad una vicenda triste e terribile. La leggenda narra, infatti, che Clitennestra ed Egisto avessero una figlia, di nome Erigone. Quando i suoi genitori vennero uccisi da Oreste, Erigone decise di vendicarsi e a tale scopo seguì il fratellastro ad Atene. Ma quando vi giunse capì di non poter riuscire nel suo intento, fu presa da scoramento e decise di impiccarsi. Dopo la sua morte, tuttavia, ad Atene accadde un fatto strano e molto preoccupante: tutte le vergini, come fossero contagiate da un maleficio, avevano preso ad impiccarsi in massa. Gli ateniesi, sconvolti da una tale catastrofe, si rivolsero all’oracolo di Apollo, a Delfi. Questi rispose loro che bastava costruire delle altalene, in modo tale che le fanciulle potessero dondolarsi nell’aria, come faceva chi si impiccava, senza perdere la vita. Fu così, allora, che ad Atene ogni anno la morte di Erigone veniva ricordata il terzo giorno della festa di Anthesteria, quando veniva celebrato il rito delle “chytroi” (pentole), durante il quale veniva preparata la “panspermia” (un misto cioè di cereali immersi nel miele) e le giovani donne si divertivano a dondolarsi in altalena.
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Ciliege fritte
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Ingredienti: 5 tuorli, 5 albumi, 150 gr di farina, 100 gr di latte, 300 gr di ciliege grandi, 100 gr di zucchero, ¼ cucchiaio di cannella in polvere, olio per friggere.
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Montiamo gli albumi a neve. Prepariamo una pastella battendo insieme i tuorli, la farina ed il latte. Quando sarà pronta vi aggiungiamo gli albumi montati. Lasciamo l’impasto riposare per 40 minuti circa. In un piatto mescoliamo insieme lo zucchero e la cannella. Laviamo le ciliege e le asciughiamo per bene. Tenendole dal picciolo le immergiamo una ad una nella pastella e le buttiamo nell’olio bollente, lasciandole friggere fin quando abbiano assunto un bel colore dorato. Le facciamo scolare bene su della carta assorbente e poi le tuffiamo nello zucchero con la cannella.